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LE TRE BECCACCE 3^ giornata

3^ giornata
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La notte avevo fatto sonni agitati, vedevo cani dappertutto e boschi fitti e impenetrabili; sentivo ululati e spari a salve. Era quel caratteristico crepitio delle armi che servivano per aizzare i cani e spaventare le bestie selvatiche per indurle a scappare in una direzione voluta dal capocaccia. Era angoscioso saper di dovere essere in un burrone nascosto dietro un paio di frasche e sentire solo il rumore del torrente che scaricava in una cascatella. Nemmeno la possibilità di fumare una sigaretta per allentare la tensione. Mi svegliai bagno di sudore, affaticato più che riposato dal letto caldo e soffice. Mi accostai alla finestra e aprii uno sportello. La luce vivida di un’alba fredda mi svegliò del tutto. Pensai che sarebbe stato meglio allontanarmi dal paese senza incorrere in nuovi pettegolezzi e discussioni dove si diceva di tutto e il contrario di tutto.

Quello che si poteva fare era stato fatto, ognuno aveva provveduto ai suoi compiti. Io ero stato fino a tardi con mio cugino a raccogliere informazioni, vagliarle e scrivere qualche appunto per lui. Poi, a lume della nostra esperienza venatoria e a conoscenza delle leggi, avevamo tirato le fila del discorso. Non c‘erano dubbi, la vittima aveva fatto un’imprudenza ad avvicinarsi al branco per favorire i cacciatori. Era stato un atto che non doveva fare. Il tiratore però era tenuto a sincerarsi che nel branco non ci fosse nulla di anomalo. Comunque non si spara mai nel mucchio. Doveva aspettare che si palesasse un animale per mirarlo bene e sparare a colpo sicuro. Purtroppo le varianti sono molte quando ci si trova in quelle situazioni, la leggerezza, la voglia di far vedere di essere bravo, la cupidigia di entrare in possesso di una preda di valore, la paura del poderoso e selvaggio animale sono tutti fattori che possono, anche se non devono, far commettere gesti inconsulti. In definitiva era stato un incidente di caccia, evitabile, ma non era stato così.

Mi scossi dai pensieri e mi scrollai il sonno e l’ansia della notte, decisi di vestirmi e andare via, da solo, a meditare nei boschi assieme al mio fido Setter Gyp. Era una mattinata che poteva essere piena di sorprese, sia di caccia sia di maturazione umana e psicologica.

Appena pronto caricai sull'auto fucile e cane e partii. Per strada maturai la decisione di non andare verso i posti dei giorni precedenti; chissà perché mi sembrava di dovere qualcosa alla memoria del povero giovane ucciso. Lui doveva riposare nel silenzio lì dove aveva incontrato la sua mala sorte. Pertanto presi lungo la provinciale verso il fiume Senapite. Alle brutte, se non avessi trovato beccacce, c’era sempre la speranza di potere alzare un branco di coturnici. La caccia era ancora aperta anche a quei bellissimi animali; mancavano pochi giorni al Natale.
Arrivai che uno spicchio di sole mi entrava dal vetro sulla mia destra. Scesi e guardai il panorama, drizzai le orecchie per carpire un canto, un suono che animasse il panorama bellissimo coronato di Acacie che circondavano il vallone ai lati del torrente, le macchie colorate di fronte erano imbellettate da qualche albero di corbezzoli. I frutti gialli e rossi si notavano anche da quella distanza. Mi chiesi se le coturnici assaggiassero quei dolci frutti e pensai che avrei dovuto farlo anch'io.
Feci scendere il cane, gli attaccai subito il collare col campano, chiusi la macchina e mi avviai caricando il mio automatico. Il freddo era pungente, mi fu fatto di alzare gli occhi verso le serre e vidi nuvoloni neri che sembravano molto preoccupanti.
-        E’ neve!
Pensai e mi venne voglia di urlare. La neve mi dava allegria e nostalgia da quando ero ragazzo. Mettevo le trappole per gli uccelletti e stavo dietro un albero sorvegliando, con le mani e le orecchie gelate. Quando vedevo il branchetto svolazzare impaurito, correvo e cercavo la trappola che aveva fatto il suo lavoro, la liberavo della preda, ricaricavo l’esca e mettevo di nuovo la trappola in posizione sparendo subito dietro l’albero.
La neve, che gran fenomeno che è.  Mette allegria a chi sta bene e rattrista chi sta male. Chi non sente freddo non la teme e la desidera, chi sente il freddo la teme e la maledice. Mi avviai sul sentiero che scendeva precipitoso verso il basso. Il cane era già sparito per sondare posti che conosceva bene.
Sui sassi del torrente avvertii il pericolo della brina ancora non sciolta, un passo falso e avrei fatto  compagnia alle trote. Passai leggero e veloce senza incidenti porgendo l’orecchio al campano che denunciava l’inerpicarsi del cane in cima alla collina di fronte. Raggiunto il sentiero oltre il torrente, mi affrettai, non volevo che il cane si trovasse ad affrontare una ferma senza avere il mio appoggio. Salire su era faticoso e lui era molto più veloce di me. Raggiunsi la base della collina e scorsi l’apertura fra i rovi e il lentisco che delimitava il passaggio di animali di grossa taglia. Sapevo che lì sopra albergava una mandria di vaccine. Erano loro gli alleati che tenevano pulito il terreno e gli alberi e intanto lo concimavano. Loro erano miei complici nella mia caccia alle beccacce creando le condizioni per il loro arrivo e la sosta.

Mentre salivo il sentiero, affannandomi e attaccandomi ai rami dei cespugli, sentii un lontano suono di grosse campane che scendevano lungo il torrente. Non ci volle molto per vedere apparire la prima vacca bianca e grigia con corna poderose che avanzava decisa scuotendo il collo fornito di un grosso campano di bronzo, aguzzai le orecchie e sentii altre bestie che la seguivano. Mi parve di percepire anche una litania dolente e ripetuta, proprio come quelle che dicono le donne nella novena in chiesa seguendo la guida del parroco che la pronunciava spedito. Che cosa poteva essere? Come mai in quella solitudine una voce umana rompeva il silenzio senza motivo apparente? La voce era una sola, accorata e sorda proprio come quella di uno che parla a se più che ad altri. In quella solitudine non poteva che essere così. Mi arrestai dimenticando il cane. Presto apparve una figura umana che trottava spedita dietro l’armento. Era un uomo basso e corpulento vestito di pesanti abiti di lana grezza tinti di nero; indossava un cappello di feltro dello stesso colore, sbertucciato e sbiadito a causa delle intemperie e del tempo che aveva trascorso su quella testa canuta. L’uomo aveva un lungo mantello addosso che stringeva contro il petto per proteggersi e intanto borbottava bestemmie e imprecazioni in maniera monocorde. Non l’aveva con nessuno in particolare, imprecava contro il suo destino che lo costringeva a fare quel mestiere infame, a trovarsi fuori a quell'ora e in quel posto, con tanto freddo, alla sua età che appariva avanzata, solo e stanco per il camino impervio e pericoloso.

Lo osservai e mi provocò pena e rispetto, specie pensando che io ero lì per passione mentre lui c’era per adempiere un dovere. Pensai di chiamarlo, forse potevo confortarlo un poco, magari offrendogli una sigaretta o un sorso dalla mia fiaschetta di grappa:
-        Hei voi? Con chi l’avete, dove andate con gli animali in questa mattinata fredda che promette neve?
Si girò con sorpresa e lo riconobbi, lui mi guardò triste e silenzioso accennò un saluto con la mano destra e proseguì il suo cammino dando una voce alle vacche. Non insistetti e continuai per la mia strada ma l’episodio mi aveva ancor più rattristato. La mia mente volava verso altre fratte e pensavo a chi non c’era più per colpa di un’organizzazione approssimativa, estemporanea che mai avrebbe dovuto verificarsi.





Immagine scaricata da Internet. Chiedo scusa al proprietario e mi dichiaro pronto a levarla su sua richiesta.


Accelerai il passo conscio che il campanello del cane non si sentiva più. Salii sveltamente col fucile ben stretto in mano. Era facile che una beccaccia, se fosse stata fermata, volasse da sola dopo un così lungo tempo che il cane l’aveva trovata. Meglio stare pronti. Mi misi alla ricerca del cane, con affanno e ansia, ma non riuscivo a vederlo nella macchia di quercioli bassi e fitti, camminai quasi carponi per superare un reticolato e una siepe e m’infilai in un canaletto spoglio che serviva da sgocciolatoio alla pioggia quando si abbatteva sulla piana di sopra. Il cane era lì. Con il treno posteriore un po’ schiacciato, la testa che stava alta e gli occhi che guardavano lontano. Non c’era dubbio che fosse su una ferma di animale in movimento. La beccaccia stava tentando la via della fuga pedinando lungo il canaletto semi spoglio per guadagnare la periferia del boschetto e poi alzarsi e andarsene in una dimora più sicura. Ce n’erano tante lì intorno dato che il colle era tutto circondato da valloni che convogliavano l’acqua verso il fiume non lontano.
Il cane conscio del mio arrivo aveva cominciato ad accostare mettendo i piedi, un davanti all'altro con grande circospezione, non voleva sciupare tutto il lavoro fatto fin li; io gli andavo dietro teso e circospetto seguendo il suo esempio di silenzioso fantasma fra le frasche e gli alberelli. Il lavoro durò a lungo dato che il boschetto era a triangolo con la punta verso l’alto. In cima s’intravedeva una quercia di buone proporzioni ricca ancora di foglie ingiallite e accartocciate. La beccaccia puntava proprio là il suo timone, ci fu un momento che la vidi, la gobba dritta e la coda aperta a semi ventaglio. A un certo punto il suo sistema nervoso non resse e si catapultò in aria sbattendo le ali rumorosamente, si alzò di qualche metro e si indirizzò verso la quercia, la vidi sparire fra le foglie. Il fucile salì alla spalla da solo, il grilletto prima tormentato, scattò con una leggera automatica pressione e un colpo partì.  Vidi molte foglie cadere e frantumi di arboscelli ma la beccaccia non era fra le cose che fotografava la mia pupilla dilatata. Mi scapparono un’imprecazione e un moto di rabbia. Salii mentre il cane si avviava verso il colle e la quercia, lo chiamai burbero e deciso mostrandogli una strada diversa. La rabbia e il desiderio di rivalsa mi facevano pensare che dovevo trovarla subito e abbatterla perché lo meritava dopo un così bel lavoro del cane. Sapevo dove poteva essere, in cima, al lato della rete che proteggeva le vacche di notte all'interno di un quadrato luogo solatio. L’interno era spoglio e calpestato ma intorno c’era un rigoglioso ciuffo di alberelli ben forniti di foglie che creavano un buon nascondiglio alla regina che mi aveva gabbato. Il cane obbedì, maledetto anche lui perché quella volta non doveva farlo. Allungammo e ci trovammo a esplorare il terreno e lo facemmo palmo a palmo, se si allontanava lo richiamavo li e lui obbediente tornava ma un deserto come quello non si era mai visto, non c’era nemmeno un merlo che potesse animare il luogo con la sua sghignazzante risata.
Desolato e deluso feci un mezzo giro per tornare più in  basso e battere un altro buon posto. Il cane mi precedette e tornò verso la quercia. Lo vidi rallentare sul colmo del colle e poi sparì alla vista, sospettai che avesse annusato qualche cosa e lo seguii con due balzi. Lo vidi sotto la quercia immobile e sogghignante, col labbro tirato e l’occhio che lampeggiava, pipava l’odore e si beffava di me. Mi avvicinai levando la sicura e mi dissi che dovevo stare calmo e sparare bene.
 Sollecitai il cane a guidare toccandolo sulla testa e lui andò, si fermò poi andò e infine si bloccò come una cariatide. Non voleva sapere di procedere ancora. A quel punto feci un passo avanti a lui e si decise proiettandosi fra le felci basse e abboccando una beccaccia. Era morta, stecchita, ancora calda. Me la diede mentre io guardavo il cielo attraverso le foglie e mi davo dello stupido perché avevo comandato al cane di andare oltre mentre lui sapeva che la beccaccia era caduta fulminata. Hai quel cane, troppa ubbidienza non fu mai così inutile ma lui sapeva che avrebbe rimediato. Una volta che aveva soddisfatto il mio volere, era tornato a prendere la beccaccia. Ci furono tripudio e carezze, lui mi leccava le mani ed io gli dicevo che era scemo; non farlo più capito? Non fare ciò che dico io serviti del tuo cervello e del tuo istinto. Avevi ragione.

Pit della Cesinola. Immagine scaricata da Internet. Chiedo scusa al proprietario a cui sarò grato se mi concederà di mantenerla.





Ci spostammo calando verso valle. Il bosco lasciò la scena a una bella prateria verde e infiorettata da margherite e rare felci, laggiù ancora un boschetto che declinava nel torrente ripidamente. Puntammo verso i costoni, non sia mai un branchetto di cotorni poteva essere venuto a bere o mangiare i frutti dalle bacche rosse acidule. Il cane si spostò sulla destra io andai avanti di qualche metro e dalla periferia del bosco si alzò rumorosa una beccaccia buttandosi a precipizio verso il fondovalle. Non feci a tempo a lamentarmi della mia sfortuna che il fucile scatenò il suo canto che mi sembrò funereo e improvvido. La beccaccia era già sparita mentre una zolla dietro di lei era stata arata dalla fucilata. Il cane, al colpo, tornò e andò verso la scia della polvere. Non vece che tre o quattro passi e si bloccò in ferma. Lo guardai mentre passavo il fucile da una mano all'altra; mi avvicinai e gli accarezzai un orecchio sussurrandogli parole di scherno. Non vedi che non c’è più? E’ partita, non ci ha aspettato, dai vieni via, non c’è più la beccaccia. Eppure dovresti capire quando è una calda o una beccaccia ferma a terra. Ormai sei un cane maturo non più un giovanotto senza peli sul muso.
Mentre lo glorificavo di tutti questi pensieri e parole appena sussurrate un’altra beccaccia partì dal limitare del boschetto. Il cane ne aveva fermata correttamente una seconda che aveva avuto il sangue freddo di non volare via con la sua compagna.  Il fucile tuonò senza ripetere perché non c’era tempo, ma qualche piuma testimoniò che i pallini avevano colpito il bersaglio. Quanto fossero micidiali, lo avremmo saputo presto. Gyp si era portato sul costone e sentivo il campanello suonare un po’ qui e un po’ là. Una breve ferma mi avvertì che qualcosa era accaduta. Il cane tornò trionfante e fece un giro attorno a me orgoglioso della preda, non aspettò che gliela levassi di bocca, la depositò in terra e ripartì. Dopo pochi minuti di duro lavoro nel fitto della macchia degradante verso il torrente tornò con l’altra beccaccia in bocca. Era solo ferita ma ridotta in condizioni di non poter volare. Gyp era un cane che non perdonava animali messi sul terreno dal fucile. Non ho ma avuto un altro ausiliare migliore sotto quest’aspetto. La festa cominciò dentro di me. Da una battaglia persa a una guerra vinta. Ormai ubbie e tristezze erano passate. Persino il ricordo del morto e del povero vecchio infelice che imprecava alla sua mala sorte avevano trovato la loro collocazione nella parte remota del cervello. In quel momento sentii il ronzio di un motore che scendeva verso il ponte sul fiume non distante. Presto si fermò accanto alla mia macchina e fu suonato il clacson ripetutamente. Guardai distinguendo le sagome di qualche persona. Uno era in divisa di carabiniere. Ci scambiammo qualche parola.
-        Dove andate?
-        A Savelli, in pretura.
-        Come si mette?
-        Speriamo bene tu cosa hai trovato?
-        Tre beccacce.
-        Ecco, il solito fortunato, salute, ci vediamo stasera.
-        Va bene. Buona fortuna.
La macchina si avviò, io restai pensoso un attimo. Avevano detto fortuna ma non lo era. Tre beccacce furono conquistate con rabbia e tre colpi da maestro. Con quella stoccata che mi era congeniale e che nessuno mai aveva potuto superare in velocità e precisione. La stoccata del beccaccista nato che, a sedici anni, aveva preso la sua prima e che aveva ancora tanta voglia di incontrarne altre. Convinto che ognuna gli avrebbe lasciato un ricordo di se. Come il primo bacio della persona amata.

                                                       -Fine-


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