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giornata
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La
notte avevo fatto sonni agitati, vedevo cani dappertutto e boschi fitti e
impenetrabili; sentivo ululati e spari a salve. Era quel caratteristico
crepitio delle armi che servivano per aizzare i cani e spaventare le bestie
selvatiche per indurle a scappare in una direzione voluta dal capocaccia. Era
angoscioso saper di dovere essere in un burrone nascosto dietro un paio di
frasche e sentire solo il rumore del torrente che scaricava in una cascatella.
Nemmeno la possibilità di fumare una sigaretta per allentare la tensione. Mi
svegliai bagno di sudore, affaticato più che riposato dal letto caldo e
soffice. Mi accostai alla finestra e aprii uno sportello. La luce vivida di
un’alba fredda mi svegliò del tutto. Pensai che sarebbe stato meglio
allontanarmi dal paese senza incorrere in nuovi pettegolezzi e discussioni dove
si diceva di tutto e il contrario di tutto.
Quello
che si poteva fare era stato fatto, ognuno aveva provveduto ai suoi compiti. Io
ero stato fino a tardi con mio cugino a raccogliere informazioni, vagliarle e
scrivere qualche appunto per lui. Poi, a lume della nostra esperienza venatoria
e a conoscenza delle leggi, avevamo tirato le fila del discorso. Non c‘erano
dubbi, la vittima aveva fatto un’imprudenza ad avvicinarsi al branco per favorire
i cacciatori. Era stato un atto che non doveva fare. Il tiratore però era
tenuto a sincerarsi che nel branco non ci fosse nulla di anomalo. Comunque non
si spara mai nel mucchio. Doveva aspettare che si palesasse un animale per
mirarlo bene e sparare a colpo sicuro. Purtroppo le varianti sono molte quando ci
si trova in quelle situazioni, la leggerezza, la voglia di far vedere di essere
bravo, la cupidigia di entrare in possesso di una preda di valore, la paura del
poderoso e selvaggio animale sono tutti fattori che possono, anche se non
devono, far commettere gesti inconsulti. In definitiva era stato un incidente
di caccia, evitabile, ma non era stato così.
Mi
scossi dai pensieri e mi scrollai il sonno e l’ansia della notte, decisi di
vestirmi e andare via, da solo, a meditare nei boschi assieme al mio fido Setter Gyp. Era una mattinata che poteva essere piena di sorprese, sia di
caccia sia di maturazione umana e psicologica.
Appena
pronto caricai sull'auto fucile e cane e partii. Per strada maturai la
decisione di non andare verso i posti dei giorni precedenti; chissà perché mi
sembrava di dovere qualcosa alla memoria del povero giovane ucciso. Lui doveva
riposare nel silenzio lì dove aveva incontrato la sua mala sorte. Pertanto
presi lungo la provinciale verso il fiume Senapite. Alle brutte, se non avessi
trovato beccacce, c’era sempre la speranza di potere alzare un branco di
coturnici. La caccia era ancora aperta anche a quei bellissimi animali;
mancavano pochi giorni al Natale.
Arrivai
che uno spicchio di sole mi entrava dal vetro sulla mia destra. Scesi e guardai
il panorama, drizzai le orecchie per carpire un canto, un suono che animasse il
panorama bellissimo coronato di Acacie che circondavano il vallone ai lati del
torrente, le macchie colorate di fronte erano imbellettate da qualche albero di
corbezzoli. I frutti gialli e rossi si notavano anche da quella distanza. Mi
chiesi se le coturnici assaggiassero quei dolci frutti e pensai che avrei
dovuto farlo anch'io.
Feci
scendere il cane, gli attaccai subito il collare col campano, chiusi la
macchina e mi avviai caricando il mio automatico. Il freddo era pungente, mi fu
fatto di alzare gli occhi verso le serre e vidi nuvoloni neri che sembravano
molto preoccupanti.
-
E’ neve!
Pensai
e mi venne voglia di urlare. La neve mi dava allegria e nostalgia da quando ero
ragazzo. Mettevo le trappole per gli uccelletti e stavo dietro un albero
sorvegliando, con le mani e le orecchie gelate. Quando vedevo il branchetto
svolazzare impaurito, correvo e cercavo la trappola che aveva fatto il suo lavoro,
la liberavo della preda, ricaricavo l’esca e mettevo di nuovo la trappola in posizione
sparendo subito dietro l’albero.
La
neve, che gran fenomeno che è. Mette
allegria a chi sta bene e rattrista chi sta male. Chi non sente freddo non la
teme e la desidera, chi sente il freddo la teme e la maledice. Mi avviai sul
sentiero che scendeva precipitoso verso il basso. Il cane era già sparito per
sondare posti che conosceva bene.
Sui
sassi del torrente avvertii il pericolo della brina ancora non sciolta, un
passo falso e avrei fatto compagnia alle
trote. Passai leggero e veloce senza incidenti porgendo l’orecchio al campano
che denunciava l’inerpicarsi del cane in cima alla collina di fronte. Raggiunto
il sentiero oltre il torrente, mi affrettai, non volevo che il cane si trovasse
ad affrontare una ferma senza avere il mio appoggio. Salire su era faticoso e
lui era molto più veloce di me. Raggiunsi la base della collina e scorsi
l’apertura fra i rovi e il lentisco che delimitava il passaggio di animali di
grossa taglia. Sapevo che lì sopra albergava una mandria di vaccine. Erano loro
gli alleati che tenevano pulito il terreno e gli alberi e intanto lo
concimavano. Loro erano miei complici nella mia caccia alle beccacce creando le
condizioni per il loro arrivo e la sosta.
Mentre
salivo il sentiero, affannandomi e attaccandomi ai rami dei cespugli, sentii un
lontano suono di grosse campane che scendevano lungo il torrente. Non ci volle
molto per vedere apparire la prima vacca bianca e grigia con corna poderose che
avanzava decisa scuotendo il collo fornito di un grosso campano di bronzo,
aguzzai le orecchie e sentii altre bestie che la seguivano. Mi parve di
percepire anche una litania dolente e ripetuta, proprio come quelle che dicono
le donne nella novena in chiesa seguendo la guida del parroco che la
pronunciava spedito. Che cosa poteva essere? Come mai in quella solitudine una
voce umana rompeva il silenzio senza motivo apparente? La voce era una sola,
accorata e sorda proprio come quella di uno che parla a se più che ad altri. In
quella solitudine non poteva che essere così. Mi arrestai dimenticando il cane.
Presto apparve una figura umana che trottava spedita dietro l’armento. Era un
uomo basso e corpulento vestito di pesanti abiti di lana grezza tinti di nero;
indossava un cappello di feltro dello stesso colore, sbertucciato e sbiadito a
causa delle intemperie e del tempo che aveva trascorso su quella testa canuta.
L’uomo aveva un lungo mantello addosso che stringeva contro il petto per
proteggersi e intanto borbottava bestemmie e imprecazioni in maniera monocorde.
Non l’aveva con nessuno in particolare, imprecava contro il suo destino che lo
costringeva a fare quel mestiere infame, a trovarsi fuori a quell'ora e in quel
posto, con tanto freddo, alla sua età che appariva avanzata, solo e stanco per
il camino impervio e pericoloso.
Lo
osservai e mi provocò pena e rispetto, specie pensando che io ero lì per
passione mentre lui c’era per adempiere un dovere. Pensai di chiamarlo, forse
potevo confortarlo un poco, magari offrendogli una sigaretta o un sorso dalla
mia fiaschetta di grappa:
-
Hei voi? Con chi l’avete, dove andate con gli
animali in questa mattinata fredda che promette neve?
Si
girò con sorpresa e lo riconobbi, lui mi guardò triste e silenzioso accennò un
saluto con la mano destra e proseguì il suo cammino dando una voce alle vacche.
Non insistetti e continuai per la mia strada ma l’episodio mi aveva ancor più
rattristato. La mia mente volava verso altre fratte e pensavo a chi non c’era
più per colpa di un’organizzazione approssimativa, estemporanea che mai avrebbe
dovuto verificarsi.
Immagine scaricata da Internet. Chiedo scusa al proprietario e mi dichiaro pronto a levarla su sua richiesta. |
Accelerai
il passo conscio che il campanello del cane non si sentiva più. Salii
sveltamente col fucile ben stretto in mano. Era facile che una beccaccia, se
fosse stata fermata, volasse da sola dopo un così lungo tempo che il cane
l’aveva trovata. Meglio stare pronti. Mi misi alla ricerca del cane, con
affanno e ansia, ma non riuscivo a vederlo nella macchia di quercioli bassi e
fitti, camminai quasi carponi per superare un reticolato e una siepe e
m’infilai in un canaletto spoglio che serviva da sgocciolatoio alla pioggia quando
si abbatteva sulla piana di sopra. Il cane era lì. Con il treno posteriore un po’
schiacciato, la testa che stava alta e gli occhi che guardavano lontano. Non c’era
dubbio che fosse su una ferma di animale in movimento. La beccaccia stava tentando
la via della fuga pedinando lungo il canaletto semi spoglio per guadagnare la
periferia del boschetto e poi alzarsi e andarsene in una dimora più sicura. Ce
n’erano tante lì intorno dato che il colle era tutto circondato da valloni che
convogliavano l’acqua verso il fiume non lontano.
Il
cane conscio del mio arrivo aveva cominciato ad accostare mettendo i piedi, un
davanti all'altro con grande circospezione, non voleva sciupare tutto il lavoro
fatto fin li; io gli andavo dietro teso e circospetto seguendo il suo esempio
di silenzioso fantasma fra le frasche e gli alberelli. Il lavoro durò a lungo dato
che il boschetto era a triangolo con la punta verso l’alto. In cima s’intravedeva
una quercia di buone proporzioni ricca ancora di foglie ingiallite e
accartocciate. La beccaccia puntava proprio là il suo timone, ci fu un momento
che la vidi, la gobba dritta e la coda aperta a semi ventaglio. A un certo
punto il suo sistema nervoso non resse e si catapultò in aria sbattendo le ali
rumorosamente, si alzò di qualche metro e si indirizzò verso la quercia, la
vidi sparire fra le foglie. Il fucile salì alla spalla da solo, il grilletto
prima tormentato, scattò con una leggera automatica pressione e un colpo
partì. Vidi molte foglie cadere e
frantumi di arboscelli ma la beccaccia non era fra le cose che fotografava la
mia pupilla dilatata. Mi scapparono un’imprecazione e un moto di rabbia. Salii
mentre il cane si avviava verso il colle e la quercia, lo chiamai burbero e
deciso mostrandogli una strada diversa. La rabbia e il desiderio di rivalsa mi facevano
pensare che dovevo trovarla subito e abbatterla perché lo meritava dopo un così
bel lavoro del cane. Sapevo dove poteva essere, in cima, al lato della rete che
proteggeva le vacche di notte all'interno di un quadrato luogo solatio. L’interno
era spoglio e calpestato ma intorno c’era un rigoglioso ciuffo di alberelli ben
forniti di foglie che creavano un buon nascondiglio alla regina che mi aveva
gabbato. Il cane obbedì, maledetto anche lui perché quella volta non doveva
farlo. Allungammo e ci trovammo a esplorare il terreno e lo facemmo palmo a
palmo, se si allontanava lo richiamavo li e lui obbediente tornava ma un
deserto come quello non si era mai visto, non c’era nemmeno un merlo che potesse
animare il luogo con la sua sghignazzante risata.
Desolato
e deluso feci un mezzo giro per tornare più in
basso e battere un altro buon posto. Il cane mi precedette e tornò verso
la quercia. Lo vidi rallentare sul colmo del colle e poi sparì alla vista,
sospettai che avesse annusato qualche cosa e lo seguii con due balzi. Lo vidi
sotto la quercia immobile e sogghignante, col labbro tirato e l’occhio che
lampeggiava, pipava l’odore e si beffava di me. Mi avvicinai levando la sicura
e mi dissi che dovevo stare calmo e sparare bene.
Sollecitai il cane a guidare toccandolo sulla
testa e lui andò, si fermò poi andò e infine si bloccò come una cariatide. Non
voleva sapere di procedere ancora. A quel punto feci un passo avanti a lui e si
decise proiettandosi fra le felci basse e abboccando una beccaccia. Era morta, stecchita,
ancora calda. Me la diede mentre io guardavo il cielo attraverso le foglie e mi
davo dello stupido perché avevo comandato al cane di andare oltre mentre lui
sapeva che la beccaccia era caduta fulminata. Hai quel cane, troppa ubbidienza
non fu mai così inutile ma lui sapeva che avrebbe rimediato. Una volta che
aveva soddisfatto il mio volere, era tornato a prendere la beccaccia. Ci furono
tripudio e carezze, lui mi leccava le mani ed io gli dicevo che era scemo; non
farlo più capito? Non fare ciò che dico io serviti del tuo cervello e del tuo
istinto. Avevi ragione.
Pit della Cesinola. Immagine scaricata da Internet. Chiedo scusa al proprietario a cui sarò grato se mi concederà di mantenerla. |
Ci
spostammo calando verso valle. Il bosco lasciò la scena a una bella prateria
verde e infiorettata da margherite e rare felci, laggiù ancora un boschetto che
declinava nel torrente ripidamente. Puntammo verso i costoni, non sia mai un
branchetto di cotorni poteva essere venuto a bere o mangiare i frutti dalle
bacche rosse acidule. Il cane si spostò sulla destra io andai avanti di qualche
metro e dalla periferia del bosco si alzò rumorosa una beccaccia buttandosi a
precipizio verso il fondovalle. Non feci a tempo a lamentarmi della mia
sfortuna che il fucile scatenò il suo canto che mi sembrò funereo e improvvido.
La beccaccia era già sparita mentre una zolla dietro di lei era stata arata
dalla fucilata. Il cane, al colpo, tornò e andò verso la scia della polvere.
Non vece che tre o quattro passi e si bloccò in ferma. Lo guardai mentre
passavo il fucile da una mano all'altra; mi avvicinai e gli accarezzai un
orecchio sussurrandogli parole di scherno. Non vedi che non c’è più? E’
partita, non ci ha aspettato, dai vieni via, non c’è più la beccaccia. Eppure
dovresti capire quando è una calda o una beccaccia ferma a terra. Ormai sei un
cane maturo non più un giovanotto senza peli sul muso.
Mentre
lo glorificavo di tutti questi pensieri e parole appena sussurrate un’altra
beccaccia partì dal limitare del boschetto. Il cane ne aveva fermata correttamente
una seconda che aveva avuto il sangue freddo di non volare via con la sua
compagna. Il fucile tuonò senza ripetere
perché non c’era tempo, ma qualche piuma testimoniò che i pallini avevano
colpito il bersaglio. Quanto fossero micidiali, lo avremmo saputo presto. Gyp
si era portato sul costone e sentivo il campanello suonare un po’ qui e un po’
là. Una breve ferma mi avvertì che qualcosa era accaduta. Il cane tornò
trionfante e fece un giro attorno a me orgoglioso della preda, non aspettò che
gliela levassi di bocca, la depositò in terra e ripartì. Dopo pochi minuti di
duro lavoro nel fitto della macchia degradante verso il torrente tornò con l’altra
beccaccia in bocca. Era solo ferita ma ridotta in condizioni di non poter volare.
Gyp era un cane che non perdonava animali messi sul terreno dal fucile. Non ho
ma avuto un altro ausiliare migliore sotto quest’aspetto. La festa cominciò
dentro di me. Da una battaglia persa a una guerra vinta. Ormai ubbie e
tristezze erano passate. Persino il ricordo del morto e del povero vecchio
infelice che imprecava alla sua mala sorte avevano trovato la loro collocazione
nella parte remota del cervello. In quel momento sentii il ronzio di un motore
che scendeva verso il ponte sul fiume non distante. Presto si fermò accanto
alla mia macchina e fu suonato il clacson ripetutamente. Guardai distinguendo
le sagome di qualche persona. Uno era in divisa di carabiniere. Ci scambiammo
qualche parola.
-
Dove andate?
-
A Savelli, in pretura.
-
Come si mette?
-
Speriamo bene tu cosa hai trovato?
-
Tre beccacce.
-
Ecco, il solito fortunato, salute, ci vediamo
stasera.
-
Va bene. Buona fortuna.
La macchina si avviò, io restai pensoso un attimo. Avevano
detto fortuna ma non lo era. Tre beccacce furono conquistate con rabbia e tre
colpi da maestro. Con quella stoccata che mi era congeniale e che nessuno mai
aveva potuto superare in velocità e precisione. La stoccata del beccaccista
nato che, a sedici anni, aveva preso la sua prima e che aveva ancora tanta
voglia di incontrarne altre. Convinto che ognuna gli avrebbe lasciato un ricordo
di se. Come il primo bacio della persona amata.
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