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LA MIA MONTAGNA

Il fulgore delle giornate estive s’irradiava sul paese. Già dalle prime ore un caldo torrido colpiva le case e il selciato, un sole giallo e splendente si alzava da est, come uno specchio rosseggiante. Nessuno poteva resistere restando esposto a quella calura. Si cercava l'ombra accomodandosi su un muretto, uno scalino, per meditare o chiacchierare con un amico sugli avvenimenti o le cose della campagna. Era il periodo in cui i pastori emigravano con le mandrie e i vaccari portavano gli animali in Sila. Là c'era buona erba e pascoli fiorenti, acqua fresca e soprattutto tanto verde in cui tuffarsi e riposare. Gli uomini godevano quanto gli animali di questo passaggio alla montagna e,talvolta, si portavano dietro i loro figli che aiutavano a custodire gli armenti. Il nonno, già dal giugno aveva fatto fagotto e raggiunto le colline più alte, anzi la montagna. Un calesse, tirato dalla possente cavalla Saura con la striscia bianca in fronte, lo trainava. La nonna salutò tutti come se emigrasse per paesi lontani. Licenziandosi in nome di Dio. In realtà c'erano solo pochi chilometri da coprire, ma le difficoltà del tracciato facevano sembrare le distanze infinite e i sacrifici, per raggiungere quei posti, sovrannaturali. Le masserizie e i rifornimenti seguivano a dorso di mulo. Due vigorosi animali che trasportavano sul dorso, nelle cassette, ogni genere di vettovagliamento e suppellettili. Tante pentole di rame o alluminio, piatti di coccio, posate; salumi, olio e vino in orci di terracotta. Io ero ancora un mingherlino ragazzetto di 8 anni la prima volta che fui mandato con i nonni in montagna. Ne sentiva il bisogno il mio fisico gracile e gentile. L'aria mi avrebbe fatto venire appetito e le scarpinate in campagna avrebbero rassodato i miei muscoli non tonici. Mi collocarono in una di quelle cassette, sul dorso di uno dei muli, sopra i panni che avrebbero coperto i nostri sonni. La via era soleggiata ma il viaggio era cominciato di buon mattino. Il caldo era quindi sopportabile. Ben presto i muli, condotti di buon passo dal mulattiere cirotano, col cappello a traverso, si ficcarono sotto il verde dei cerri alzando la polvere della pista appena segnata. Verso l'Ammarrata. Verso l'aria dei pini, verso la libertà delle campagne solitarie e lontane dalla vita della comunità. In quelle montagne il nonno aveva una fattoria e una dimora che, d'estate, diventava il suo ritiro e anche la sede dove amministrava i suoi interessi. Non era granché; quattro casupole una dietro l'altra, comunicanti, fatte di pietre a vista, tenute con la calce; ma con muri solidi e spessi che difendevano dal caldo e dal freddo invernale. Davanti, un'aia era luogo delle riunioni mattutine e serali. Prima per gli ordini e le consegne del lavoro e dopo per scambiarsi quattro chiacchiere e fare i resoconti della giornata. In cima al poggio c’erano le stalle per i cavalli e i muli; una grande quercia ombrosa offriva ristoro pomeridiano. Non era proprio un posto solitario, nel senso che un numero notevole di persone veniva per lavorare dal nonno e quindi passavano l'estate in Sila, vicino a noi. Alcuni a custodire le vacche argentee e dalle corna affilate, altri per pascolare il gregge di capre e pecore che, puntualmente, due volte il giorno, erano munte per ricavarne dolci e fragranti ricotte e sapidi formaggi. Erano in tanti perché l'azienda del nonno era fiorente. Lui faceva da dominus e i tanti salariati lo ossequiavano e mai lo contraddicevano. Non lontano vi erano casupole sparse. Ci vivevano molte famiglie che la povertà aveva costretto a non urbanizzarsi. Provenivano da Savelli e da Campana. Famiglie numerose cui non mancava l'impegno faticoso con la terra e il bestiame. Durante il giorno il silenzio era allietato dallo scampanio in lontananza, di capre, pecore e vacche. La sera si animava di parole, giochi e alle volte canzoni, risate, frizzi e lazzi all'indirizzo dei più ingenui o i più giovani fra i braccianti. Poi, verso sera, quando imbruniva e invitava al raccoglimento, dopo avere ascoltato l'ultima novella della nonna o dei più anziani, si avviavano tutti al riposo. Ormai da più di un mese godevo di questa selvaggia libertà, quando accadde il fatto che tengo in memoria. Arrivò il massaro che fungeva da caporale , con lui c’erano due pastori. Uno più baffuto che alto, l'altro allampanato; si appoggiavano a nodosi bastoni che portavano sempre appresso. Dal cipiglio dei tre capii che stava per accadere qualcosa. Il nonno li accolse col suo fare di benevolo e disincantato principe che accoglie le sue ordinanze. Comandò che si sedessero e ascoltò serio quanto veniva a riferire il caporale. Così esordì: -Da un paio di notti i lupi tormentano le mandrie-E voi cosa state facendo?- il nonno fu subito perentorio. -Non sapete allontanare quattro lupi spelacchiati?-Il caporale sembrò accigliarsi, poi si placò, borbottando un’imprecazione. Era ancora di più allerta e sembrava spaventato. -Padrone, non si tratta di quattro lupi spelacchiati, voi sapete che io sono, da vecchia data, uomo di bosco. Ce ne sono molti, sono affamati e sembrano aggressivi. Quest’anno si vede che hanno prolificato tanto e il branco non ha paura come di consueto della vicinanza degli uomini e dei cani-Ah, barzellette, fesserie; quando mai i lupi hanno fatto paura ad un pastore di Campana?-Il nonno la buttò sullo scherno, ma subito capì che non era il caso perché l'altro s’incupì ancora di più. -Vi assicuro che sono tanti e la cagna brava che comanda il branco, l'altra notte è stata assalita. Si era portata sotto e aveva ingaggiato la lotta, ma finiva male per lei. E' tornata ferita e sanguinante e mi è toccato cucirla. Ora non vorrei che la ferita suppurasse, purtroppo non abbiamo medicine. Le ho spalmato la polvere di un fungo di macchia, seccato al sole e l’ ho cosparsa di succo dell'erba cavallina; spero che possa superarla- Il nonno si fece attento-Quale cagna?- La Bettina forse?- Proprio quella- soggiunse il caporale- Sapete che è la più vigile e la più coraggiosa e la seguivano anche i suoi due figli, Maresciallo e Leone, ma sono tornati indietro palesemente spaventati e sottomessi,con la coda fra le gambe. -A quel punto il nonno si levò il cappello e si grattò la testa,accese la pipa di terracotta,pensoso. Dopo una breve riflessione parlò:-Domani sera verrò io a dormire alla mandria e vedremo di cosa si tratta-. I pastori furono sollevati, fu loro offerto del vino che bevvero con gusto e poi,preso commiato,si allontanarono nella notte incipiente d'agosto. La luna splendeva già all'orizzonte e il fresco vento della sera faceva stormire le fronde. Nel vicino canale e dalla vasca per abbeverare l'orto si sentivano le rane gracidare e i grilli cantavano nell'erba alta. La cavalla nitrì nella vicina stalla e le rispose il puledro che era chiuso allo steccato. Mi avvicinai al nonno, un poco per curiosità e un poco per sentirmi protetto. Le cugine erano attente ai loro giochi di ragazze e non avevano prestato alcuna attenzione ai discorsi. -Nonno, domani vai alla mandria. Mi porterai con te?- Guardai il nonno e mi sedetti sulla panca vicino a lui. La nonna sentì e sbuffò subito ansiosa:-Cosa dici, non fa per te, sei un bambino! Queste sono cose da uomini grandi e poi se lo sapesse tuo padre scoppierebbe il finimondo- Mi sembrò che il dissenso della nonna fosse già un cattivo presagio per l'accoglienza della mia richiesta, ma non fu così. Il nonno mi chiese di andare a chiamare il cugino grande, che era dietro la casa a giocare con alcuni giovanotti venuti a passare la serata. Usavano dei sassi piatti e pesanti come fossero bocce e dimostravano la loro abilità, a fare i punti, avvicinandole il più possibile col lancio, ad un sasso rotondo e piccolo. Passò qualche tempo. Il nonno, molto esigente, già dimostrava la sua impazienza e stava per sbottare; mi disse di andare a sollecitare il cugino. Lo feci prontamente e tornai tirandolo dalla manica della camicia sbottonata e arrotolata. Il nonno rise sotto i baffi savoiardi che aveva a quel tempo e abbaiò: -Insomma devi farti recuperare da tuo cugino piccolo?Ha più senno lui di te; pensi solo a giocare! -Il cugino replicò seccato: -Nonno! Sono tutto il giorno a sgobbare; almeno la sera lasciami prendere fiato e poi che sarà mai? -Già, e già! Il signorino sgobba;se però avessi studiato, nel collegio dove ti mandai e non fossi scappato, a quest'ora non avresti questi problemi- L'atmosfera si guastava e ricordai, diplomaticamente, che si doveva parlare dei lupi. -Nonno, ma i Lupi?-Ecco, i lupi, infatti volevo parlare di questo-. -Domani sera andremo a dormire alla mandria, i lupi hanno attaccato furiosamente ieri sera e i pastori sono preoccupati- Mio cugino era un giovanotto forte come una quercia e aduso alle avventure della montagna. Io credevo che non avesse paura nemmeno del diavolo; mi sembrava un Ercole venuto da lontano, forse dal cielo. Parlava il mio linguaggio e ci somigliavamo, ma per il resto era un semidio. Mi portava spesso con se a radunare gli armenti e contare le bestie nei boschi per verificare che non ne mancassero. Le conducevamo all'abbeverata, giù al fiume. Lui approfittava per fare il bagno nelle forre che il fiume scavava fra le rocce granitiche. Nuotava come un delfino pagaiando con le mani gigantesche. Una volta mi aveva convinto a buttargli le braccia al collo e, così avviluppato, mi portava a spasso nuotando per il fiume senza apparente difficoltà. Quante volte pensai che da grande avrei voluto fare come lui per ottenere rispetto e considerazione; esibendo anch'io muscoli così possenti. Aveva una bella voce da baritono e intonava canzoni alla moda. Le aveva sentite in paese alla radio di un tizio che ne aveva una sul suo tavolo da lavoro. -Va bene domani andremo- Lo disse con noncuranza, una noncuranza che mi rassicurò e mi fece passare in parte quel timore che avevo avvertito in precedenza. Quanto lo ammirai in quel momento e mi sentii orgoglioso di averlo come cugino maggiore. Ancora più orgoglioso di quando l' avevo osservato afferrare un giovenco per le corna e, bestemmiando e sbuffando, lo avevo visto piegargli la testa e atterrarlo. Quanta paura avevo nutrito di poter vedere il giovenco caricarlo e bucargli la pancia con le corna. Così come era accaduto quando il toro nero si era scagliato con veemenza contro il mulo maschio. Il mulo però sopravvisse fu ricucito, curato ma le interiora grosse e gonfie, che erano venute fuori del suo ventre, mi avevano fatto stare male e vomitare. I suoi ragli, mentre lo cucivano, mi facevano accapponare la pelle. Il nonno però si era rivelato un eccellente veterinario. Il pomeriggio del giorno dopo fu preceduto da una lunga attesa. Il nonno svolgeva le sue solite piccole incombenze quotidiane, aggiustare uno steccato, tagliare un alberello, potare una siepe e poi andare ad annacquare gli ortalizi. Io non lo mollavo un secondo. In casa regnava l'assoluta indifferenza per la tempesta che si svolgeva nel mio cuore. La tempesta mista di curiosità e paura. Nessuno avrebbe potuto impedirmi di partecipare all'avvenimento programmato per la sera. La cena fu servita presto, come usa nelle civiltà contadine, dove un'ora di luce si sfrutta tutta per risparmiare il combustibile della luce artificiale. Olio, gas, petrolio sono cose che costano, mentre la luce del sole non costa nulla. A tavola erano in tanti. Al capo sedeva il nonno che si era levato la giacchetta e aveva il gilet aperto. La nonna alla sua destra e i cugini e le cugine tutti intorno, a cominciare dai più adulti. Dopo pranzo, da un taschino del gilet del nonno, spuntava la sua corta pipa di coccio modellato e rivoltato a becco d'aquila e poi seccato al calore della fiamma, aveva il bocchino di cannetta giovane. Alfine ci preparammo. Io presi una giacchetta un po' pesante; andavamo a dormire all'aperto. Mi allacciai gli scarponi di cuoio e fui pronto. La nonna tentennava la testa bianca. Fece un ulteriore tentativo per dissuadere il nonno dal portarmi con se ma ne ottenne un perentorio: -Stai zitta tu, che ne sai di queste cose?Deve diventare un uomo e non può mica farlo fra le gonnelle della nonna e della mamma-. Fu tutto. Ci avviammo. Il sentiero si snodava fra i quercioli; ogni tanto un uccello notturno faceva ombra all'improvviso. Trasalivo, ma non fiatavo. Ascoltavo i rumori della campagna e cercavo d'individuare la provenienza dei rumori e dei canti. Quello è un grillo; questo è uno scarafaggio, di quelli che rotolano lo sterco; quello è un usignolo che intona la sua canzone, cieco d'amore al punto che potresti afferrarlo e lui non se n’accorgerebbe. Se non avessi avuto il pensiero dei lupi, avrei maggiormente gustato l’immersione nell'orchestra più bella del mondo. Tuttavia, quando uno ha una cura, un pensiero, un'ansia non può gustare appieno tutto il bello e il buono che lo circonda. Per me, quegli anni e quei luoghi rappresentavano tutto il bello e il buono del mondo. La felicità dell'uomo primitivo alla scoperta dell'universo. Arrivammo nei pressi dell'ovile. Già da lontano fummo avvertiti dallo scampanio dei bronzi al collo delle capre e dei montoni. Gli animali sbuffavano, sentendo arrivare estranei. Quando fummo vicino fecero un abbozzo di fuga, tutti assieme, come fanno gli animali imbrancati. Presto si fermarono contro le cancellate, dalla parte opposta alla nostra provenienza e si placarono. I cani, fino a quel momento silenti poiché eravamo sottovento, abbaiarono stizziti e agitati; poi si chetarono riconoscendo alla voce il nonno e il cugino. Vennero incontro scodinzolando con le code folte di pelo nero e rossiccio. Erano animali stupendi; di quella razza allevata dai pastori calabresi che è ormai scomparsa senza le cure di un intenditore che ne salvasse la purezza. Animali forti, dalle teste pesanti e larghe; musi aguzzi e denti bianchi come il ghiaccio, taglienti come lame. Dorsi diritti e groppe ampie, coperti di pelo folto come le pecore. Il colore era di un nero opaco e sfumature di fuoco coprivano frange e sopra occhi. Le code folte e lunghe, portate a tromba, servivano a preservare le narici dal freddo. Durante la gelida notte nella neve dormivano arrotolati e nascondevano il naso sotto le code. I saluti dei pastori furono presto dimenticati, mentre il nonno dava le consegne: -. Tagliate quel pino mezzo secco e dategli fuoco così intero com'è! Presto comparvero asce e attrezzi; il pino in pochi minuti fu vinto. Si abbatté con fragore a lato della capanna di ginestre a forma di cono. Gli fu appiccato il fuoco e la resina scoppiettò, mentre i rami friggevano sfoggiando un colore rossastro. L'odore di bruciato era pesante e mi costrinse a mettermi sottovento.-Prendete ognuno due cani; legateli agli angoli del quadrato dei cancelli dove stanno gli animali-. Ogni uomo dormirà vicino ai cani e con l'accetta pronta. Rifornitevi di torce resinose da accendere per fare luce nella notte, se ve ne sarà bisogno-. Gli ordini furono presto eseguiti. Solo Bettina fu lasciata libera a causa delle sue ferite; tutti avevano a cuore la sua salute. La povera bestia non ci aveva lasciato un attimo, sembrava avesse intuito che sarebbe accaduto qualcosa. Più volte venne a strofinare la pesante testa sotto la mia mano, cercando una carezza. Come amai quella cagna; nessun altro cane poté occupare il suo posto nel mio cuore finché non ne ebbi uno di mia esclusiva proprietà. Mi sembrava un baluardo contro il pericolo e la sua un’ottima difesa. Lo pensai io, e lo intuì essa. Mi sembrò che volesse prendermi sotto la sua protezione. Chi può dirlo! Ma ci fu di certo un'intesa fra lei e me, come se avesse capito che ero l'unico debole della numerosa comitiva. Il forte che difende il debole. Con la sua vicinanza mi rassicurava. Ognuno prese posto dove gli era stato assegnato. Io,il cugino e il nonno alla fine ci sdraiammo su un saccone pieno di paglia che fungeva da materasso. Era stato posto all'interno della capanna a forma di cono, ma era tanto piccola che ci stavamo mezzi dentro e mezzi fuori. Un fuoco scoppiettante di legna di leccio e pino scaldava i piedi privati delle scarpe e con le sole calze di lana che faceva comodo anche d'estate. In montagna anche d'agosto è meglio stare cautelati,specie la notte. Gli adulti presto si addormentarono,erano esperti di quelle avventure. Io vegliavo e ascoltavo. Avrei potuto descrivere ogni scricchiolio di ramo.,ogni fruscio di topo campestre che cercava il suo pasto di sementi,ogni flatulenza proveniente dal deretano del nonno che aveva abbondantemente mangiato,secondo suo costume. Bettina si era accucciata poco lontano assumendo la postura della sfinge col muso appiattito fra le zampe anteriori. Potevo giurare che non chiuse un occhio nemmeno per un attimo. Infatti ,se girava la testa verso di me, li vedevo lampeggiare al chiarore delle fiamme. Non seppi mai dire se ad un certo punto mi assopii o se passai dalla fantasia dei pensieri alla realtà degli accadimenti. All'improvviso sentii, dal lato est della mandria,un improvviso scampanio. Due cani ringhiarono e abbaiarono come se li stessero spellando vivi; un pastore cominciò a strillare. Urla disumane, senza senso,grida da forsennato. Vidi partire dalla terra verso il cielo dei tizzi ardenti che scintillavano nella notte e venivano giù come comete. Fu un inferno in un minuto. Una bolgia. Vidi scattare in piedi nonno e cugino e tutti urlavano con grida gutturali e stentoree. Gli animali negli stazzi andavano su e giù, terrorizzati e ammucchiati. La notte amplificava i suoni e un brivido mi correva per la schiena. Credevo che da un momento all'altro sarei stato addentato e sbranato da orde fameliche di lupi. I cani furono sciolti tutti,Bettina era sparita. Non l'avevo nemmeno più vista dal momento che il pastore aveva attaccato la sua canzone di paura e di veglia. Fu un vero quarantotto. Poi le urla stridenti e gutturali diventarono grida e le grida parole. Cominciai a capire qualcosa del vernacolo stretto nel dialetto gutturale di Campana. Due lupi erano riusciti a gabbare i cani mentre altri sei li tenevano impegnati e, portatisi sul lato sud, erano saltati dentro la mandria. Le capre e le pecore spaventate avevano caricato le chiudenda. Il pastore più vicino si era svegliato di soprassalto e aveva gridato, per avvertire e per spaventare i lupi. Poi era arrivata Bettina che aveva comandato la riscossa dei cani. Tutti assieme avevano scacciato e inseguito per molti metri il branco ma mai avvicinandosi troppo. C'era pericolo reale anche per loro e Bettina esperta e giudiziosa lo sapeva. Alla fine rientrarono accanto ai pastori e Bettina venne verso la capanna e mi guardò negli occhi scodinzolando serena. Accidenti a quel pastore che coi suoi urlacci indemoniati mi mi aveva terrorizzato e fatto venire un attacco di ansia parossistica. Ben presto la valle si calmò,fu riattizzato il fuoco e il pino divampò di nuovo. Guardai in cielo. La luna era ancora alta e sembrava una padella chiara e limpida, col suo faccione da Gioconda. Il nonno mi osservò e disse:- Saranno ormai le due,fra poco è l'alba,la nottata è passata-. La frase mi consolò un pochino;mi sdraiai accanto al nonno e fui vinto dal sonno, caddi in un torpore dal quale fui svegliato dal movimento del campo che cominciava la giornata lavorativa. Mi fu chiesto di rendermi utile e di entrare nello stazzo per spingere l’armento verso le portelle con un lungo bastone di nocciolo. I pastori aspettavano di là dallo steccato seduti su un panchetto e con un secchio fra le gambe per la mungitura mattutina. Dopo munte le bestie venivano lasciate libere; si inoltravano sui campi e cominciavano a brucare la fresca erbetta immemori dello scampato pericolo della notte. Così va il mondo. Un dolore e un piacere.
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