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La neve,la caccia e le avventure.

Molti anni fa,credo attorno al 64/65, vivevo l’arrivo della neve come una magnifica occasione per avviare una avventura venatoria fuori da ogni regola insomma straordinaria. In realtà ero assolutamente affascinato dai racconti dei miei parenti e amici cacciatori sulle occasioni che poteva offrire la caccia in tempo di neve.
A quei tempi non esisteva alcuna restrizione in merito e non c’era
nemmeno coscienza dell’eventuale forzatura verso la conquista di un capo di selvaggina in maniera più o meno nobile.
La cultura era quella del prendere per bisogno ancor più che prendere per diletto, quando diletto s’intenda soddisfazione dell’istinto venatorio/predatorio tal quale esiste in ogni animale carnivoro. Cultura per altro che ,in alcuni luoghi, tarda a morire.
Ebbene, quell’anno come accadeva spesso in quei lustri, venne abbondante la neve sia sulla Sila alta sia sulla pre Sila crotonese. I monti e le colline furono coperti di strati consistenti di neve fresca e la vegetazione soggiacque alle fredde temperature del dicembre avanzato.
La prima neve stimolò in me il desiderio della ricerca di un selvatico sulle tracce.L’attenzione ovviamente era rivolta verso la Lepre,il quadrupede concupito per eccellenza in mancanza dell’onnipresente cinghiale dei nostri giorni.
Ci vedemmo coi “compari” in piazza e si decise di fare una uscita. I miei due accompagnatori erano di diversa cultura ma di uguale passione.L’uno,assistito dalla vita nelle campagne a motivo del suo mestiere di taglialegna e carbonaio, era un profondo conoscitore delle contrade e delle abitudini degli animali.L’altro era emulo di un suo zio,celebre appassionato di ogni forma di caccia,e la sua professione di muratore non gli era servita affatto per approfondire la conoscenza della natura e dei boschi ma lo aveva assistito la passione per la caccia coi segugi in particolare e di tutta la selvaggina in generale.  Entrambi nutrivano una grande passione pari, se non superiore, alla mia.
L’intento era quello di andare verso nord/est nelle praterie e nei boschi ancora compiacenti verso i selvatici, per nutrimento e nascondiglio, a cercare tracce di selvaggina; seguirle e individuare i covi onde potere  impadronirsene con un ben assestato colpo di fucile.
La cosa non richiedeva assolutamente l’uso di cani anzi imponeva l’assoluta assenza.Essi avrebbero potuto solo creare intralcio tenendoli legati  o addirittura confusione, tenendoli sciolti, perché avrebbero rincorso la selvaggina portandola lontano dal tiro di fucile.
Fu impossibile cercare di fare capire loro questa questione poiché entrambi insistettero col dire di portare almeno un cane con noi. Quello più adatto fu giudicato un mio vecchio segugio francese a pelo forte che era aduso a cacciare ogni selvatico di pelo o di penna per esserci stato forzato dal mio socio e compagno di avventure.
Fu legato con un guinzaglio lungo e assicurato alla cintura di uno dei due a nome Nicola. Ci avviammo guadagnando con qualche fatica i primi contrafforti delle nere colline ombreggiate dal ceduo ormai spoglio delle foglie marroni e rami trasformatisi in ghiaccioli bianchi ornamenti per il presepe.
Ci portammo fuori dalla strada carrozzabile allungando la vista sulle radure e fino al limitare dei boschi per individuare eventuali tracce notturne. Le prime furono le enormi e freschissime piste di un lupo solitario che si era portato a valle a caccia di prede.Le seguimmo, dietro mio espresso desiderio.Volevo conoscere abitudini,vie e luoghi di frequentazione nonché eventuali  vestigia di prede catturate. Una fucilata non gliel’avremmo risparmiata di certo.A gloria futura e ricordo di una vita di avventure venatorie.
Peccato che nessuno dei tre ebbe a pensare che se noi gli si andava dietro lui correva davanti e mai si sarebbe fatto raggiungere. Il lupo ha un udito finissimo e un alto tasso di selvaticità.Non ama nemmeno l’odore fresco dell’uomo quindi si cela come può e sveltamente.
Quando, in seguito,raccontai la cosa ad un cacciatore,il vecchio Angiolino, compagno di mio padre, ci rise sopra per la nostra ingenuità. Mi disse che, se volevamo veramente sparargli, dovevamo precederlo con una mezzo cerchio, appostarci in luoghi idonei su un varco obbligatorio o un sentiero molto chiuso in mezzo al bosco e poi,uno di noi, avrebbe dovuto seguirlo sull’orma spingendolo così alle poste.
Mi pare ovvio adesso, col senno di poi, ma allora né io,diciottenne, né loro,più vecchi ma inesperti di questa forma di caccia sospettarono che stavamo rincorrendo un’ombra.
Desistemmo, dopo un paio d’ore di pesante marcia sulla neve alta, decidendo di volgere l’attenzione verso obbiettivi più piccoli:la Lepre.
Cercammo a lungo senza rilevare tracce. Seppi, dopo molto tempo, che gli animali non escono alla prima notte di neve.Si alzano solo dopo che il morso della fame li obbliga quindi il secondo o il terzo dì dopo la nevicata.Fu un altro fiasco ma foriero di una bella lezione,meglio così.
Verso mezzo giorno, ormai abbastanza stanchi e affamati, decidemmo di tornare verso il paese. I due amici però non erano ancora paghi. Mettendo in preventivo obbiettivi meno impegnativi, decisero che avremmo fatto un cerchio verso la statale e,cacciando cacciando,saremmo rientrati dal lato sud/est del paese. Il progetto fu suo ed io non pensai d’interferire minimamente.Ero ancora assettato di esperienze sulla neve.Volevo proprio vedere come andava a finire per suggellare un ricordo mio di questa forma di caccia.
Nicola,che portava il cane,stanco per gli strattoni decise di scioglierlo.Non poteva fare più danni di quanti ne avessimo fatti noi che non avevamo preso ancora nulla.Non ne poteva più d’incespicare sul guinzaglio e pestargli le zampe.Era opportuno davvero.
Ci portammo nella valle di Comito e verso la radice del fiume Vitravo. Il cane si avviò nella macchia, sul costone lungo il piccolo rio e abbaiò un paio di volte. C’era una beccaccia di sicuro,lo sapevamo. Ci disponemmo.Dopo un pochino un altro abbaio più lungo ci prevenne dell’imminente volo. Il mio compare boscaiolo allungò il passo per portarsi in posizione migliore, maldestramente si portò su un pozzetto di cemento dell’acquedotto. Scivolò sul ghiaccio formato nella notte  e mentre si catapultava nella neve sottostante la beccaccia s’involò rumorosamente. D’istinto,mentre cadeva a testa in giù, rivolse le canne verso l’uccello e partì un colpo.
La beccaccia cadde fulminata a pochi metri.Lui si conficcò con la testa e fino alle spalle nella neve alta agitando i piedi calzati da stivali rossi di gomma. Io e l’altro compare scoppiammo a ridere. Sopravvenne subito la preoccupazione verso il nostro compagno e ci precipitammo a soccorrerlo. Non si era fatto assolutamente nulla e,mentre si puliva, la sua preoccupazione era quella di sapere che fine avesse fatto la beccaccia. Andai a raccattarla e gliela porsi non senza un commento rivolto al suo fondo schiena.
Continuammo l’esplorazione delle parti meno innevate ma non trovammo nulla fino alla statale. Lì giunti i miei amici,ancora insoddisfatti, decisero di cominciare una scaccia ai tordi numerosissimi, che sfrecciavano dalle macchie verso gli uliveti, in un continuo traccheggio.
Il mio compare taglialegna mi chiese se gli facevo provare il mio nuovo sovrapposto Beretta e ci scambiammo i fucili. Lui aveva un vecchio, pesantissimo catenaccio a cani esterni. Era una doppietta robusta e ben impostata, con la quale avevo sparato spesso e mi ci ero trovato sempre molto bene. Acconsentii.
Andando in là,in ordine sparso, ci perdemmo di vista subito ma sentivo che entrambi avevano cominciato a fare fuoco. Io avvertivo sete e mi allontanai dalla battuta verso una piccola pozza d’acqua sorgiva  nei pressi, che conoscevo molto bene, alle curve del Grubillo.
Mi chinai senza mollare il fucile che tenevo in mano con la destra. Mi appoggiai con cautela sul terreno muschioso a bordo della pozza. Bevvi avidamente per soddisfare lo stomaco asciutto dopo una colazione a base di salsiccia piccante e pane fresco di forno.
Appena finito e decidendo di rialzarmi mandai l’occhio in giro casualmente. Con molta sorpresa e incredulità vidi di fronte a me una beccaccia, a pochi metri,con le ali appena appena aperte e pronta al volo. Era rimasta lì, tutto il tempo, guardinga  sorpresa durante la sua ricerca di lombrichi nei pressi della fonte liberi dalla neve.Ci scrutammo immobili entrambi. Non sapevo cosa fare.Intanto i miei amici, per lungo tempo sprovvisti di mie notizie, mi chiamavano con fischi insistenti e a gran voce.
Pensai in un primo momento di girare con calma le canne del fucile verso di essa ed esplodere un colpo rasoterra. Scartai l’ipotesi perché colpendola non avrei ricuperato alcun che. In una frazione di secondo decisi di alzarmi di scatto e cercare di sparare al volo.Speravo che avrebbe preso una via di fuga a me favorevole.Lo feci.Purtroppo per lei si buttò in basso verso il fiume e al pulito. Una fucilata la tirò giù. Ai miei amici che venivano verso di me, preoccupati dal lungo silenzio, spiegai la situazione. Risero entrami ma uno dei due, che non aveva ancora la sua beccaccia, lo fece con un pochino d‘amarezza. Avanzò quindi l’ipotesi di allungare leggermente il nostro cammino verso un terreno dove noi sapevamo che poteva esserci ancora possibilità di fare un incontro.
Ovviamente,anche se stanchi, acconsentimmo. La passeggiata ci portò in un campo denso di voli di tordi.I miei amici tiravano a ripetizione ma i morti erano pochi io sparai ad un paio di merli e un tordo. Ad un certo punto spararono contemporaneamente ad un merlo che, palesemente ferito, si buttò in una siepe non lontana.
Si guardarono con un segno d’intesa Nino disse all’altro: “Andiamo?”;l’altro acconsentì prontamente. Appena a tiro della siepe lanciarono un sasso per involare il merlo.Con gran sorpresa invece volò una beccaccia e subito dopo il merlo.Spararono entrambi,beccaccia e merlo caddero nella neve.
Anche l’altro amico aveva avuto la sua beccaccia.Potevamo rientrare.
I miei amici si chiamano Nicola e Nino. Uno,  ancora vivo, continua saltuariamente ad andare a caccia l’altro ormai non c’è più. Fecero parte delle mie giornate felici.

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